Editoriale di Andrea Lenzi

Quanto è urgente elaborare un pensiero comune che stimoli l’azione di ognuno di noi sul principio del bene comune e che ispiri la politica ad investire sul futuro di questa Terra?

E’ un quesito che riguarda la nostra fragilità biologica come esseri umani difronte ai grandi mutamenti ambientali, climatici e sociologici nei quali siamo immersi, senza avere la piena consapevolezza che i cambiamenti in atto, da noi stessi generati finiranno per incidere sulle generazioni future.

Theodore Roosevelt, 26° Presidente degli Stati Uniti e Premio Nobel per la Pace nel 1906, diceva “ La Terra appartiene alle generazioni che verranno, e quello che noi vi facciamo dev’essere misurato sull’intero svolgersi del tempo, nel quale noi, che siamo vivi  oggi, non siamo che una frazione insignificante. Dobbiamo dunque impedire che una minoranza senza principi distrugga un patrimonio che appartiene alle generazioni che verranno. Il movimento per la conservazione dell’ambiente e delle risorse naturali è essenzialmente democratico per spirito, finalità e metodo“

Parole dettate oltre un secolo fa e che suonano attuali, e che sembrano servire da monito a da stimolo ad una classe politica poco interessata alle generazioni future. Una classe politica che in maniera miope, stenta a fornire azioni e risposte  concrete alla sempre maggiore richiesta di progettare un futuro migliore in un contesto dove le generazioni attuali. Come dicevano gli indiani nativi americani, il pianeta Terra non è nostro, lo abbiamo in prestito e abbiamo il dovere di restituirlo nello stesso stato alle generazioni future.

Le profonde ferite che causiamo all’ambiente, ai contesti urbani, ai patrimoni culturali e paesaggistici si rifletteranno sul mondo che siamo destinati a consegnare alle generazioni future.

Ma è anche l’educazione alla conservazione e allo sviluppo della  “bellezza” nel contesto nel quale siamo destinati a vivere, deve essere principio fondante di un senso di partecipazione civica.

La “bellezza” delle nostre città, sempre più spesso minata dalla mancanza di visione d’assieme, con entità che lavorano a silos, incapaci di comunicare gli uni agli altri e di prendere decisioni condivise.

Il concetto di metabolismo urbano, introdotto da Abel Wolman per una ideale  città americana nel 1965, traccia una analogia tra il funzionamento di una città e il funzionamento biologico di un organismo.

Sappiamo che uno dei grandi temi dei nostri tempi è l’incremento della popolazione umana su scala globale, che si stima sfiorerà i 10 miliardi entro il 2050. Alcuni studi, come il report The weight of cities (pubblicato da UN Environment), prevedono che circa il 70% delle persone abiteranno nelle città e che molte di esse vivranno all’interno di insediamenti informali senza i servizi di base. L’aumento della popolazione porterà alla costruzione di nuove città e all’ampliamento delle città esistenti, causando il consumo di circa 90 miliardi di tonnellate di risorse, per lo più materie prime.

Non è un caso parlare di peso delle città nell’introdurre il concetto di metabolismo urbano: la città presenta caratteristiche che la rendono simile a un organismo vivente, un superorganismo che divora materiali, beni, cibo, acqua, energia, che arrivano spesso da luoghi molto distanti, e li restituisce sotto forma di rifiuti ed inquinamento. Come spesso accade alle persone che soffrono di problemi metabolici, l’assimilazione di ciò che viene consumato è solo parziale e finisce con il causare effetti nocivi; nelle città l’opulenza si concentra nelle zone centrali, mentre nelle periferie vengono accumulati scarti ambientali e disagio sociale.

La maggior parte delle nostre città viene gestita con un approccio lineare, ma in realtà le città sono sistemi complessi dinamici e andrebbero progettate e gestite con la logica sistemica della città circolare. Per questo è necessario passare ad un tipo di pianificazione e gestione urbana di tipo circolare, utilizzando approcci come quello del metabolismo urbano, così da ridurre consumi, inquinamento e disparità sociale, mentre si ottimizza l’utilizzo di risorse ed energia.

La metafora della città come organismo vivente nasce con Abel Wolman a metà degli anni ‘60 per studiare i flussi di materiali e di energia su scala urbana; Wolman basò la sua ricerca su un’ipotetica città di un milione di abitanti e si focalizzò sulla quantificazione delle risorse in entrata e dei residui in uscita, definendo il metabolismo urbano come “tutti i materiali e le materie prime necessarie a sostenere gli abitanti di una città a casa, al lavoro e nel tempo libero”.

Nella rappresentazione di tipo urbanistico del metabolismo urbano, una parte delle risorse che confluiscono nelle città, come cibo, acqua, materiali da costruzione, altri materiali, energia, capitali, informazione, e le stesse persone fanno parte del sistema energetico che genera una città, con vari impatti sull’ambiente, la flora e la fauna e i relativi processi ecologici, e che possono andare al di là del semplice confono urbano e riflettersi sul contesto generale.. Un metabolismo urbano è regolato da funzioni quali la politica e la governance urbana, la cultura e i comportamenti dei singoli individui.

Un tema interessante che si ripropone oggi in uno scenario di grande sofferenza energetica, dove ognuno di noi è chiamato ad essere parte di un sistema virtuoso che permetta un migliore utilizzo delle risorse energetiche.

Le città sono fatte di esseri viventi che sviluppano non solo un metabolismo urbano in senso energetico, ma anche ambientale e legato alla salute individuale e della collettività. Esseri viventi in grado di essere fattori determinati di sviluppo.

Quante città siamo chiamati ad osservare a secondo quale sia l’esperto che la propone.

Le smart cities, le green cities, le healthy cities, le sport cities e tante altre che sembrano isole di un arcipelago che fa della città un mero laboratorio.

Ma questo deve essere un tema sul quale riflettere nel momento che progettare una città o un contesto urbano non può essere solo asservito al desiderio informe di sviluppo senza che vi sia una visione di assieme.

Borromini diceva che l’architetto non opera in un empireo dalla sola ragione estetica ne dalle sole ragioni del committente, ma deve essere guidato dall’etica e dalla deontologia del proprio mestiere.

Una visione che pone ognuno come parte del problema o della soluzioni, e sia che siamo medici, urbanisti, ambientalisti o altro, siamo chiamati ad essere “architetti di vita”, con la consapevolezza che il “sapere” è tale se lo stesso ha un impatto positivo sulla vita di tutti, perché incide sull’ambiente urbano, sulla nostra comunità, indirizza e determina quotidiana e modifica le dinamiche della società civile, avendo un impatto reale sulla Terra che consegneremo alle generazioni future.